LA RINUNCIA
L’unità di misura per eccellenza,
che viene di norma utilizzata per valutare l’entità del nostro diritto alla
libertà, è senza alcun dubbio la rinuncia. Grazie alla rinuncia possiamo
sentirci in dovere di pretendere la soddisfazione del nostro desiderio, e più è
gravosa la rinuncia, più è indiscutibile il nostro diritto all’avere, al
realizzare, all’ottenere, nei tempi da noi indicati e nelle modalità da noi
previste. La rinuncia è la nostra assicurazione
sulla vita. Purtroppo non è così semplice e fin troppo spesso, per fortuna,
le cose vanno diversamente.
Rinuncia dopo rinuncia ci
sentiamo più forti, più sicuri e più decisi, in certi casi anche più
determinati e focalizzati sul nostro desiderio che, in tal caso, diviene quasi
di natura obbligatoria di fronte alla nostra legge morale e personale. Per ottenere
qualcosa dobbiamo rinunciare ad altro e se lo facciamo allora il
desiderio verrà per forza realizzato. La pensiamo così, anche quando il
desiderio rimane inespresso, quando non viene manifestato o quando, dopo anni e
anni, siamo ancora lì ad aspettare quel qualcosa,
che forse mai arriverà.
La verità è che quella legge
interiore, pseudo-morale, non esiste. Non c’è in natura nessuna regola che
nemmeno lontanamente possa ricordarla. La rinuncia è la peggiore delle
convinzioni, un virus letale che ci ha infettati da bambini, catturati dagli
schemi mentali degli ignari adulti, viscidi schemi mentali prodotti a doc, immediatamente pronti al’uso non
appena ospitati.
La rinuncia non ci avvicina ad
una buona condotta, bensì ci allontana dalla verità, incoraggiando una menzogna
ancestrale e quasi blasfema, che definisce rinuncia la più ben nota
repressione.
Siamo tuttavia convinti che la
rinuncia ci dia il diritto ad ottenere soddisfazione, nonostante sia ben chiaro,
nella nostra mente, che la repressione non è altro che la strada per un attaccamento indissolubile al nostro
stesso desiderio, un semplice
ritardare l’evento per renderlo più
saporito, golosamente perverso e maledettamente indispensabile.
La rinuncia è repressione, e
la repressione è l’alimento del bisogno.
Oggi possiamo rinunciare a qualcosa ma, presto o tardi, il bisogno
sarà così forte in noi da abbattere ogni nostra difesa e, ben ancorato al
nostro modello di diritto, ci renderà succubi schiavi inermi, mossi da una
inspiegabile rabbia, radicata nell’enfasi dell’immediata necessità dopo un’agitata
e lunga attesa. Quel giorno ci prenderemo la soddisfazione precedentemente
negata e lo faremo sicuramente nel peggiore dei modi possibili, con tutta quell’intensità
che mai avremmo potuto immaginare. Ciò, fino ad esserne completamente sazi e
totalmente insoddisfatti, così da poterne avere ancora, sfiorando appena l’ingordigia
per non destare sospetto.
La rinuncia va rifiutata, anche
se è la più abile tra gli amanti. Il suo potere è l’imbroglio, la sua arma il
bisogno e il suo nome la nostra sconfitta.
Per raggiungere la semplicità e seguire
la via del risveglio interiore, non occorre rinunciare, piuttosto è vero che è
necessaria la naturale decadenza del bisogno. L’assenza del bisogno è la strada
corretta per la serena presenza, per una vita integra e priva di pericolosi ammassi
post-datati, nascosti nell’attesa
dell’attimo giusto. Un monaco, ad esempio, non dovrebbe rinunciare al piacere
fisico, tuttavia non dovrebbe sentirne il bisogno, e la differenza non è poi
così sottile.
Non dobbiamo mai rinunciare a nulla,
ma, serenamente coscienti, aspettare con pazienza che il bisogno svanisca.
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